Forse il miglior film di Ron Howard, quello in cui i suoi manicheismi sono limitati da uno script eccellente di Peter Morgan e portati in trionfo da uno straordinario Daniel Bruhl...
Il dettaglio che non bisogna trascurare nei credits di Rush è il nome di Peter Morgan alla sceneggiatura.
Già con
Ron Howard per
Frost/Nixon, lo sceneggiatore inglese è tra le penne migliori d'Europa (autore di
The Deal, The Queen, I due presidenti e
Il maledetto United), e in
Rush regala uno dei suoi script migliori, talmente buono che nonostante sia indirizzato sui lidi di
Ron Howard (manicheismo, riproposizione stantia di strutture mandate a memoria, riduzione ai minimi termini delle psicologie individuali...) riesce a regalare un film a due in cui è difficile capire chi sia il vero protagonista e che, è chiaro solo al momento del dialogo finale, è centrato più sul concetto stesso di "rivalità" che sulla Formula 1 o Lauda vs. Hunt. Come già un paio di film americani hanno fatto negli ultimi due anni (
L'arte di vincere e il sottovalutatissimo ma sorprendente
Un anno da leoni)
Rush racconta che vincere non è semplice, non è da tutti e richiede dei sacrifici e un'abnegazione che forse non sono nemmeno auspicabili, certe volte semplicemente non ne vale la pena di vincere, o quantomeno la vittoria effettiva forse è una sconfitta umana e viceversa, tocca arrendersi per vincere realmente.
E' insomma un film realizzato in maniera impeccabile Rush, fotografato con colori poco saturi e grana grossa per ricordare gli anni '70 (anche se poi lo stile fatto di primi piani ravvicinatissimi, videocamere dentro il casco, immagini mosse durante le corse per rendere la velocità è estremamente moderno), montato con grande abilità e recitato benissimo (Bruhl fa il lavoro che ci si aspetta da un attore vero: non imita ma interpreta, non usa il volto ma tutto il corpo e con una fissità anomala capace di rendere moltissimi stati d'animo diversi). Ciò che lo rende molto buono e non eccezionale è l'irrimediabile tendenza di Ron Howard a prendere per mano lo spettatore e spiegargli tutto a parole, mostrargli ogni cosa e insistere sul rendere i personaggi delle macchiette di se stessi. Lauda e Hunt, nelle intenzioni del film (che non ha interesse a raccontare la storia ma solo a trasfigurarla nel mito) non sono uomini, sono Ragione e Sentimento, una dialettica logica prima che umana, e Howard sembra centrare ogni sua soluzione su quest'opposizione, con molta meno fantasia della sua sceneggiatura.
Eppure, come si diceva,
Rush riesce a vincere anche contro il proprio regista, tirando fuori da esso il meglio. Se il titolo fa riferimento esplicito a Hunt, al concetto stesso di brivido, di foga e fame nel vivere e quindi nel correre (e il film in molti punti, locandina inclusa, sembra la sua storia non quella di Lauda), da un altro punto di vista quel secchione che si contrappone al quaterback, quel topo sfortunato e antipaticissimo per cui nessuno nel film tifa, ha una malinconia e contemporaneamente una forza umana talmente innegabili (e qui entra in ballo
Bruhl, il suo temperamento il suo modo di essere antipatico senza esserlo davvero) da riportarlo sotto i riflettori anche contro la volontà del film.
Un dialogone finale tirerà le somme di tutto e chiarirà intenti e volontà dell'opera, rileggendo (un po' fuori tempo massimo) tutta la storia. Ma anche senza quello il ritmo e la potenza fisica di Rush, il suo nutrirsi di veleno in bocca, sangue nei polmoni e forza di uomini fermi in un abitacolo, urla e dolore ha un grande senso.