[Roma 2012] Bullet to the Head, la recensione

Ovazione al Festival di Roma per il ritorno del veterano dell'action anni '80 Walter Hill in compagnia di Sylvester Stallone, in un action movie poliziesco secco, ironico, essenziale...

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Per i giovani cinefili Walter Hill è un nome probabilmente conosciuto solo in relazione a Drive di Nicolas Winding Refn, variazione sul tema Driver, l'imprendibile diretto nel 1978 proprio da Mr. Hill.

Per i vecchi cinefili, tra cui chi scrive, Walter Hill è uno dei registi americani più importanti e potenti degli '80 con drammi, polizieschi e action movie memorabili come I guerrieri della palude silenziosa, I guerrieri della notte, 48 ore e Danko.

E' proprio il film con l'insolita coppia Schwarzenegger-James Belushi, insieme a 48 ore (strana coppia Nick Nolte–Eddie Murphy), il punto di riferimento più prossimo per questo ultimo Bullet in the Head (Hill mancava al cinema da 10 anni), presentato con applausi e ovazioni nella fortunata sezione del Fuori Concorso (tutti i film più amati del Festival stanno qui: Mental, Populaire e appunto Bullet in the Head).

Siamo a New Orleans e un poliziotto di origini coreane proveniente da Washington DC (Sung Kang, visto due volte con piacere nel franchise Fast'n'Furious, anch'esso concentrato sulle strane amicizie criminali-poliziotti) è costretto ad allearsi con un killer a pagamento di origini italiane (Sylvester Stallone) per questioni di vendetta personale (killer) e giustizia collettiva (sbirro). Il poliziotto è tecnofilo (fa sempre delle ricerche su internet con il black berry), giudizioso e un po' imbranato. Il killer a pagamento è vecchio stile, laconico e disilluso. Nelle prime scene Sly sembra fin troppo ingessato (complice anche un voice over in primis stucchevole) poi i siparietti con Kang si fanno sempre più esilaranti come questo: Killer: “Mi piace il tuo stile da samurai”; Poliziotto: “I samurai sono giapponesi ma io non sono giapponese. Sono coreano. E' come se ti dicessi che il mio piatto italiano preferito sono i tacos” Killer: (dopo pausa calcolata) “Che stupida analogia”. Queste sono le parti di commedia virile dove uomini duri si scambiano frasi dure. L'origine letteraria di tutto ciò è ovviamente Raymond Chandler. Il killer comincerà a guardare di buon occhio il poliziotto e viceversa, anche per via del coinvolgimento della figlia dell'assassino a pagamento: una tatuatrice di personalità che adocchia lo sbirro orientale perbene. Impossibile non pensare al russo + yankee di Danko e al bianco irlandese + afroamericano di 48 ore. Il film è veloce, snello, molto basico nella trama. Hill continua a sapere il fatto suo come quando monta un concerto scatenato di musica country con l'omicidio di un personaggio dentro un pub. Scena splendida. Sembra di assistere al mitico montaggio alternato dell'indimenticabile finale de I guerrieri della palude silenziosa (musica e feste mentre tra gli astanti ci sono persone che vogliono uccidersi). Notevole Jason Momoa nei panni di un killer cattivo comunista con un grande amore per la classe operaia (“Mai fidarsi di qualcuno che non è interessato ai soldi” dirà di lui il suo capo con una delle tante belle battute del copione di Alessandro Camon) anche se l'eccezionale look di Khal Drogo da Trono di spade lo perseguiterà in eterno: impossibile non vederlo fuori contesto tra pistole e completi scuri da assassino. L'atteso scontro tra lui e Sly a colpi di ascia non lascia delusi e l'arma vagamente fantasy si confà a Momoa molto di più di pistole e coltelli che in mano sua sembrano cavatappi. Geniale il finale anti-retorico in cui la laconicità di Sly raggiunge il massimo giusto a un secondo dai titoli di coda. Ci vuole parecchia classe e zero autoindulgenza per chiudere la pellicola così.

E' un film dedicato totalmente ai ragazzi anni '80. E' duro, ironico, secco, essenziale, antiretorico.
Grazie Mr. Hill. E bentornato.

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