Frankenweenie, la recensione [2]

Ecco la nostra seconda recensione di Frankenweenie, il film in stop-motion bianco e nero 3D di Tim Burton in arrivo a gennaio in Italia...

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L’intera cinematografia di Tim Burton, più ancora che attorno all’estetica dark e ai freak, ruota attorno a un grande tema: quello della fuga dalle realtà piccole, dalla provincia, intesa sia come luogo fisico, ovvero la California degli anni ‘60, sia come luogo dell’anima, l’eterno vuoto che insegue tutti i ragazzi di paese che, per un motivo o per l’altro sono “scappati di casa” per inseguire una vocazione artistica, umana o professionale. Il regista di Burbank ci ha già mostrato di conoscere benissimo la grazia o il tedio a morte di vivere in provincia in Edward Mani di Forbice e Big Fish, tuttavia, dopo le deviazioni di Alice e Dark Shadow, con Frankenweenie (presentato al London Film Festival e uscito in questi giorni nelle sale di mezzo mondo) ha deciso di tornare alla sua vena estetica originaria recuperando il suo primo cortometraggio e costruendoci attorno una nuova narrazione che, fra autoanalisi e citazioni, piazza un altro importantissimo tasello nel percorso burtoniano.

Frankenweenie è il film più personale di Tim Burton e, proprio per questo, difficilmente piacerà alle grandi folle che hanno l’ultima fase della sua carriera. Girato tutto in un elegantissimo bianco e nero, il racconto dell’amicizia fra un giovane Victor Frankenstein (ogni riferimento è puramente voluto) e il suo cagnolino si allontana quasi subito dal pedissequo canone dell’animazione made in Disney e diventa, fin dalle battute iniziale, una toccante seduta di psicanalisi, in cui Burton sublima la sua personalità in quella del protagonista e ci rende partecipi delle sue ansie infantili, del suo senso di inadeguatezza e, più in generale, della difficoltà di essere diverso in un mondo incapace di guardare più in la del backyard ben tosato e della familiare in garage. Frankenweenie, nella sua leggerezza, riesce finalmente a riscoprire quell’equilibrio fra estetica e sentimento che negli ultimi film di Burton sembrava essersi perso. Certo, ci sono i freak, così come ci sono alcune chicche citazionistiche da intenditori, ma, per la prima volta in dieci anni, il genio di Burbank riesce a portare sullo schermo una storia davvero sua, priva di condizionamenti esterni, dove l’agrodolce va di pari passo con le scene più inquietanti, mentre il gusto dello strambo, anziché essere preponderante, diventa funzionale alla narrazione. Finalmente libero di fare quello che vuole, Burton ha mostrato al suo pubblico (e a Disney) che non sempre il gigantismo è necessario ma che bastano tre pupazzetti in stop motion per raccontare grandi storie.  Non a caso tutto in Frankenweenie, dai titoli di testa fino alle conclusioni, è minimale, addirittura gli scambi di battute sono quasi inutili, il film, infatti, va visto come un ritratto, l’estremo saluto di un figlio della provincia che solo oggi, dopo trent’anni di carriera, è riuscito finalmente a liberarsi dai fantasmi della sua infanzia. E l’ha fatto a suo modo, girando un film che, nella sua semplicità, riesce a toccare le corde emotive più basilari di qualsiasi essere umano: l’amore, la morte, l’ansia dell’abbandono, l’ambizione. Come Victor, anche Tim ha fatto rinascere la cosa più importante della sua vita: la passione per il cinema intesa non più come mero esercizio di stile, ma come scavo profondo - e a volte doloroso - in quell’insondabile miniera che sono le nostre idiosincrasie, le nostre paure e, più in generale, quello che fa di noi ciò che siamo oggi. piccola città io ti conosco, nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia in meglio, ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano... F. Guccini, Piccola città 
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