[Cannes] Reality, la recensione

Unico italiano in concorso, Matteo Garrone porta un film inusuale e non completamente riuscito, ma si conferma cineasta incredibile...

Critico e giornalista cinematografico


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Fissato con il concetto di "favola" (aveva definito così anche Gomorra, aggiungendo l'aggettivo "nera"), consacrato ad un cinema che paradossalmente imita il teatro nel suo "accadere live" e appassionato di luoghi, corpi e professioni dei suoi personaggi Matteo Garrone è un regista davvero imprevedibile, eppure con Reality firma il suo film più prevedibile.

La storia gira dalle parti dell'influenza delle aspirazioni indotte nella vita dei singoli, dell'infrangersi dei sogni e va a parare sui temi della pazzia e della superstizione. Insomma introduce un po' di banalità in una confezione che rimane sempre e comunque straordinaria, fatta di luoghi sorprendenti (quell'Acquafan...), fisici martoriati dalla realtà della vita (si potrebbe descrivere ogni suo personaggio solo spiegandone il corpo) e una composizione delle inquadrature che, quando non è improvvisata, suggerisce il più raffinato degli occhi per come queste parlino più delle battute.

 

Le ragioni della grandezza del cinema di Matteo Garrone quindi non stanno mai nelle sue trame (alle volte libri, alle volte pure invenzioni poco complesse e alle volte adattamenti di fatti di cronaca), quanto nel processo attraverso il quale le mette in scena.
Dotato di un metodo personale formato da autodidatta, Garrone gira cronologicamente e realizza ogni ciak chiedendo agli attori di non dire le battute alla stessa maniera del precedente, ma di variare sulla base dei concetti che sanno di dover esprimere. Inoltre filma sempre in prima persona (cioè è l'operatore dei suoi film), ponendosi in mezzo alla scena con la macchina a spalla per seguire gli eventi che non sa come si svolgeranno.
Questo fa sì che sia l'unico regista al mondo che può permettersi durante una scena di lasciarsi distrarre da quel che accade a margine della stessa, andandosi a soffermare su un dettaglio improvviso che cattura la sua attenzione (la bambina che gioca col bottone) o improvvisamente negando i controcampi di un dialogo perchè affascinato da un'espressione, un taglio di luce o una composizione particolare. E benchè questo accada 2-3 volte in un film, l'idea più grande di un cinema "osservato" rende lo stesso ogni sua pellicola un gioiello di compresenza dello spettatore nella scena, attraverso "l'attenzione" posta dalla videocamera in ogni momento.

Verrebbe dunque da dire che non può esistere, per definizione, un film brutto di Garrone; questo perchè il suo sguardo - reso esplicito dal suo imporsi sui canoni della messa in scena - è sempre interessante, per natura, e perchè questa lavorazione lascia sempre emergere una personalità e un occhio così forti sugli eventi, da dominarli.
Eppure Reality è una delusione. L'idea di un uomo che inseguendo un sogno (di liberazione dai problemi economici) s'innamora dell'idea di piacere a qualcuno e del successo, prima ancora di riceverlo, ma solo per aver partecipato ad un casting, fa sì che la reality del titolo non sia solo l'indicazione di un genere televisivo: è anche quella realtà che il protagonista ad un certo punto perde di vista. Stimoli interessanti, buoni per quella valanga di articoli demagogici contro i reality show che arriveranno con l'uscita italiana, ma nulla più.

Reality, purtroppo, è sempre ad un passo dall'essere memorabile, ad un'inquadratura dal mettere a frutto quei corpi straordinari scelti con perizia per essere tutto tranne che ordinari, quelle location inumane inquadrate come fossero altro (c'è un quartiere che sembra un paesello), quelle luci (e soprattutto i bui) di Marco Onorato e il favolismo (quello con il quale il regista è fissato) suggerito più che altro dall'incipit e dallo score di Alexandre Desplat.

Un peccato.

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