Oltre le colline, la recensione

Audace nei ragionamenti, inesorabile nel metterli in scena, abile nel raccontarli. Il nuovo film di Cristian Mungiu è una delle prove autoriali più convincenti della stagione...

Critico e giornalista cinematografico


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Se c'è un film che quest'anno può convincere anche il pubblico meno incline nei riguardi del cinema compassato e austero (quello più di nicchia o da festival) è Oltre le colline. Senza per nulla girare dalle parti del suo successo maggiore 4 Mesi, 3 Settimane, 2 giorni, Mungiu gira 152 minuti prendendo ispirazione da due storie di ortodossia cristiana e violenza fuse in una sola, organizzata come un ottovolante, non tanto per la rapidità ma per il meccanismo di lenta salita nella prima parte funzionale ad una rapidissima discesa terrificante nella seconda. Non a caso la sceneggiatura è stata premiata a Cannes, al pari delle due attrici protagoniste.

In una chiesa da poco formata un prete regola la vita di una congrega di monache timorose e facili allo spavento, nella cui comunità piomba un'altra donna, laica, ex amante (ma ancora innamoratissima) di una di loro, bisognosa di aiuto economico e, si scopre presto, non facile da trattare forse anche per questioni patologiche.

Come si conviene al cinema di Mungiu è sempre abbastanza difficile attribuire le colpe o anche solo emettere una sentenza secondo gli standard giurisprudenziali della società occidentale, le colpe sono chiare ma le motivazioni sono investigate ad un livello tale che è impossibile non comprendere che la catena che ha portato agli infausti eventi è stata forse più diabolica degli attori stessi. Eppure in Oltre le colline esiste un contrasto affascinante e commovente tra il candore infinito di un amore che spinge a combattere tutto e prendere le decisioni peggiori e la violenza con la quale è manifestato e represso.

I temi sociali più semplici sono evidenti e facilmente ravvisabili (la convinzione che esiste dietro una scelta religiosa, il limite tra convenzione e fede, la violenza della missione di salvazione del clero, l'ottusità dei dogmi e la paura che il sesso e il diverso suscitano) ma Mungiu sa lavorare negli anfratti, evitando di raccontare di monache lesbiche e concentrandosi invece sulle azioni imprevedibili di chi, in situazioni estreme, lascia prevalere la paura sulla comprensione. Allora quello che davvero unisce questo film a quello precedente e più noto è l'incredibile e inutile (ma realissimo) percorso di purificazione che è costretto a percorrere chi ama senza ragione, senza badare alla propria convenienza, percorso che il regista non ha paura di mostrare come cristologico.

La prigionia, così spesso rappresentata al cinema, quando è guardata dal punto di vista di Mungiu (questa volta inteso in maniera letterale, proprio dai punti in cui si piazza la macchina da presa) diventa altro, una squallida storia di disperazione e incapacità di decidere e una metafora pazzesca (mai mostrata in pieno) di una crocefissione raggiunta senza che nessuno lo volesse o intendesse, ma frutto di carità.

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