Venezia 69: The Master, la recensione [2]

Due uomini che vogliono essere qualcosa che non sono e che sviluppano un rapporto a partire dalla falsità che arriva a un inaspettato sentimentalismo...

Critico e giornalista cinematografico


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C'è tutto Paul Thomas Anderson nell'incredibile sforzo che i due personaggi al centro di The Master (per l'appunto il maestro e l'allievo) fanno per costruirsi l'identità che vogliono ed esserne all'altezza. Da una parte lo scienziato del paranormale, l'indagatore dell'animo umano con mezzi poco convenzionali, l'innovatore, seguito, amato e idolatrato da un gruppo che è come una famiglia (cioè una setta) e magari anche riconosciuto dalla comunità scientifica, dall'altra il reduce di guerra un po' scemo, molto traumatizzato e con problemi di aggressività in cerca di pace, sicurezza e riparo.

Come in tutti i film del regista di Magnolia la lotta che anima la storia è tutta interna a dei personaggi che cercano disperatamente di diventare quel che desiderano, di raggiungere degli obiettivi che hanno a che vedere con la conquista di uno status o la ridefinizione (in meglio) della propria identità.

Non a caso quest'ideale si nutre di interpretazioni memorabili su personaggi costruiti in ogni dettaglio. In The Master si tocca un nuovo vertice in questo senso. Hoffman è immenso nel suo lavorare con il contagocce per distillare il carisma infinito di una figura debole, mentre Joaquin Phoenix, vero maratoneta, esagera con controllo e usa tutto il corpo, anche la schiena e la postura nel piano d'ascolto, per diventare l'immagine stessa dell'insicurezza violenta.

Con uno stile visivo magnifico e opulento e un'organizzazione del racconto (prologo, crescita e showdown finale) entrambe ricalcate sul modello di Il Petroliere, Anderson stavolta mette in scena un'amicizia, che è un rapporto di dipendenza sentimentale fortissimo, usando i mezzi dell'epica. Benchè non sia mai nominata, dietro i personaggi c'è sempre la grande storia e davanti a loro i grandi spazi. Tutto è immenso in questa storia in cui due figure cercano un rapporto basato su presupposti di potere dell'uno sull'altro e di fiducia cieca dell'altro sull'uno. E' una relazione che comincia squilibrata e sempre di più trova un equilibrio che sorprendentemente i protagonisti stessi faranno una commovente fatica ad abbandonare. E quest'inaspettata emotività è forse il pregio maggiore del film e contemporaneamente ciò che mancava a Il Petroliere.

Per fare tutto ciò Anderson allunga i tempi forse anche oltre quanto si sarebbe dovuto, e gira un film con un passo volutamente più lento rispetto al suo solito (il classico ritmo scandito da una fusione di rumori e score andersoniano compare in pochi punti) ma anche dotato di una dolcezza che non siamo abituati a trovare in lui.

Più di tutto però si affida ad una fotografia ed un impatto visivo potentissimi, ovviamente amplificati (anche solo idealmente, visto che non tutti lo vedranno nel formato giusto) dall'uso della pellicola 70mm, trionfo dell'alta definizione prima dell'arrivo del digitale ed oggi (se vista proiettata nella sua forma originale) incredibilmente simile al livello di colore, dettaglio e profondità raggiunto dal digitale più evoluto.

The Master dunque è un film che se guardato nel dettaglio offre infiniti spunti di gioia e trovate esaltanti, mentre visto nel complesso è di una semplicità inusuale, simile a quella di Ubriaco d'amore, di quelle che per fare breccia hanno bisogno di sedimentare per un po' dentro lo spettatore.

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