London Film Festival 2012: Frankenweenie, la recensione
Tra citazioni del cinema horror, un espressivo stop-motion bianco e nero in 3D e momenti esilaranti, Frankenweenie potrebbe diventare un cult...
Negli ultimi vent’anni Tim Burton ha “addomesticato” intere generazioni. C’è chi è cresciuto con Beetlejuice, chi con La Sposa Cadavere, chi si è innamorato di Edward Mani di Forbice e chi sa a memoria le canzoni di Sweeney Todd. Entrare in un cinema per vedere un suo nuovo film significa accettare di sospendere la realtà e lasciarsi trascinare in un mondo surreale, dove tutto è inaspettato.
Tratto dall’omonimo corto che Burton realizzò con la Disney negli Anni Ottanta, Frankenweenie racconta la storia dell’amicizia tra il piccolo Victor Frankenstein e il suo bull terrier, Sparky, che viene investito da un’automobile all’inizio del film. Victor, mosso dal desiderio di riavere il proprio cagnolino, durante un’illuminante lezione di scienze elabora un piano per riportarlo in vita, attirando su di sé i sospetti della comunità e l’invidia dei compagni di classe, che tentano di ripetere l’esperimento con esiti disastrosi. Inutile dire che la componente autobiografica è fortissima: la vicenda è ambientata a Burbank, città natale di Burton, a metà del secolo scorso, e tutti i personaggi sono ispirati a persone reali. In particolare il professore di scienze, Mr Rzykruski: nei suoi tratti fisici emergono Vincent Price e Martin Landau (doppiatore nella versione originale) e i suoi insegnamenti, che vanno ben al di là del sussidiario, sono certamente ispirati dai professori che hanno segnato l’adolescenza del regista.
La scelta dello stop-motion abbinata al bianco e nero, se a prima vista può sembrare azzardata e poco di moda, riesce a restituire la sensazione di una città di periferia cristallizzata nel tempo, di una fiaba antica che, se non fosse per il 3D, potrebbe essere una pellicola girata con il Super8 che Victor usa per filmare Sparky. Impossibile non essere d’accordo con Burton e con i due produttori, Allison Abbate e Don Hahn: Frankenweenie non poteva essere se non così. La tecnica è parte della narrazione, crea un rapporto intimo con i personaggi, esaltando il lavoro degli artisti che li hanno modellati e manipolati per più di due anni. Una sensazione tattile, come se lo spettatore potesse per magia rimpicciolire e finire nel plastico, assieme a loro. Sparky, per esempio, è stato realizzato con una tale accuratezza nei dettagli e nei movimenti da sembrare più reale dei cani veri utilizzati come modelli.
Probabilmente Frankenweenie è destinato a diventare un cult, soprattutto per gli appassionati del genere horror che riescono a interpretare il tessuto di rimandi e citazioni, tributo del regista ai suoi miti personali. E senza dubbio non si tratta di una pellicola unicamente per bambini, anzi. Non entrerò nei dettagli per non rovinare il finale, ma la componente emotiva ha una forza a tratti prevaricante. Burton riesce a toccare quelle due o tre corde primordiali e profondissime: l’amore puro e infinito per il primo animaletto, le dinamiche con i compagni di classe, il rapporto con i propri mentori. Impossibile uscire dalla sala senza soffiarsi ripetutamente il naso. Soprattutto perché quando ci si abitua al fantastico mondo di Burton, dove tutto è possibile, tornare alla realtà diventa incredibilmente difficile.