Lo Hobbit: un Viaggio Inaspettato, la recensione e un confronto [2]

Ecco la nostra seconda recensione dello Hobbit: un Viaggio Inaspettato, nella quale Alessia Pelonzi opera anche un confronto con la Compagnia dell'Anello...

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Facciamo un gioco. Proviamo, per qualche minuto, a dimenticare che Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato è il prequel della trilogia fantasy più celebrata della storia del cinema. Proviamo a dimenticare che, con quei tre film comunemente riuniti sotto il titolo “Il Signore degli Anelli”, Peter Jackson ha rivoluzionato l’immaginario degli spettatori di tutto il mondo, senza doversi nemmeno preoccupare di stravolgere la grammatica cinematografica.

Certo, è un gioco complicato. Se non altro perché, ovunque si volga lo sguardo, ovunque si tenda l’orecchio, da ogni angolo del cinefilo globo terracqueo si alza la stessa domanda: “Lo Hobbit sarà all'altezza del Signore degli Anelli”? Complicato, ancora, perché buona parte degli spettatori che andranno a vedere “Lo Hobbit” hanno ancora in mente, nonché nel cuore, la trilogia di cui la nuova fatica di Jackson è prologo.

Proviamo, dunque, a partire dal dilemma letterario: si può tradurre un romanzo di circa quattrocento pagine in ben tre film di quasi tre ore l’uno? L’effetto poco burro su troppo pane era un pericolo più che mai concreto per Jackson, e le polemiche che hanno seguito il suo annuncio, l’estate scorsa, di aumentare da due a tre i capitoli della saga la dicono lunga sulla perplessità dilagante riguardo un libro tanto ridotto rispetto ai voluminosi tomi di “Il Signore degli Anelli”.

Evidentemente, Jackson ama il rischio e percorre la strada più difficile, senza per questo inciamparvi. Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato prende le prime centocinquanta pagine del romanzo originario e non solo ne valorizza i contenuti, ma li amplia, integrandoli con le Appendici tolkeniane e facendoli fiorire come germogli sotto la mano di un giardiniere esperto. Le differenze con l’opera letteraria d’origine, dunque, non sono mai difetto ma raffinata gemmazione che, ogni tanto, cede il passo ad ammiccamenti alla precedente trilogia. Gandalf che chiama i soccorsi sussurrando alle farfalle come già visto nella Compagnia dell’Anello può far sorridere i critici smaliziati, ma arriva dritto al cuore del pubblico, che non mancherà di entusiasmarsi di fronte ad altri discreti riferimenti alle successive avventure di Frodo, Aragorn e compagnia bella.

Un ottimo sviluppo lo hanno i personaggi dei tredici nani della compagnia. Se nel libro la loro caratterizzazione era piuttosto limitata – per non dire inesistente - Jackson e la sua squadra di sceneggiatori hanno saputo elaborare personalità diverse e ben definite, che non fanno rimpiangere la varietà della futura Compagnia dell’Anello. La scelta, in questo senso, di affidare i ruoli dei nani a volti relativamente sconosciuti al grande pubblico appare condivisibile; svetta su tutti il carismatico Thorin Scudodiquercia di Richard Armitage, capo valoroso che richiama, per coraggio e lealtà, l’Aragorn di Viggo Mortensen e, per asperità e rancori, l’indimenticabile Boromir di Sean Bean. Ian McKellen torna nei panni dello stregone grigio Gandalf, arricchendo il personaggio di nuove sfumature di paura e incertezza che ne fanno a pieno titolo il co-protagonista del film.

E il protagonista? Peter Jackson ha affermato che, per lui, c’è sempre stato un solo possibile candidato per il ruolo del giovane Bilbo Baggins, lo hobbit del titolo. Per avere Martin Freeman ha apportato modifiche alla scaletta di riprese, in modo da consentirgli di girare la pluripremiata serie “Sherlock” accanto a Benedict Cumberbatch, anch’egli presente nello Hobbit. Insomma, per avere Freeman ha smosso mari e monti: e guardando la sua performance non si può dargli torto. L’attore britannico illumina il film con una grande interpretazione che catalizza su di sé l’attenzione sentimentale dello spettatore, portandolo a un grado di immedesimazione molto profondo per la dimensione fantastica dell’universo narrato. Espressivo e talentuoso, Freeman ha dalla sua la tecnica di ripresa a 48 fotogrammi al secondo, che ne cattura ogni minima espressione. Esemplare, a tale proposito, la scena degli indovinelli tra Bilbo e Gollum – il caro vecchio Andy Serkis in motion capture, promosso da Jackson anche a regista della seconda unità. Sequenza elogiata quasi all’unanimità, che ben sottolinea le affinità di bravura e formazione dei due attori inglesi.
 

E arriviamo alla tecnologia: i famigerati 48 fotogrammi per secondo. Siamo sinceri, all’inizio lo scetticismo la fa da padrone, e per i primi dieci minuti di film si ha l’impressione di essere di fronte ad una versione a colori e in 3D di un filmato velocizzato di Ridolini. Dieci minuti su poco meno di tre ore di film, però, non sono nulla, e si arriva alla conclusione – peraltro splendida – di questo primo capitolo con un bagaglio visivo mai sperimentato prima. Leggenda vuole che molta gente sia fuggita dalla sala alla prima proiezione di “L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, nel gennaio 1896. Se questo non ha segnato la fine del cinema, nemmeno le critiche fermeranno quella che si delinea essere la via del futuro. Con un po’ di pazienza, l’occhio si adatta all’HFR e gode appieno di quanto questa nuova tecnica ha da offrirgli, calandosi all’interno dell’ambiente proiettato e quasi annullando la barriera invisibile dello schermo.

Possiamo sicuramente metterci a cavillare su alcune lungaggini, in particolare nella prima ora di film e nelle scene a Gran Burrone: sarebbe, tuttavia, come osservare in dettaglio un quadro di Velazquez e dissertare sul fatto che noi, quella specifica pennellata, l’avremmo data meglio. Poi ci allontaniamo, guardiamo l'immagine d’insieme e ci tocca chinare il capo. Perché, complessivamente, Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato profuma davvero troppo di meraviglia per potergli rimproverare due o tre minuti di troppo.
 

Ecco, il gioco è finito. Abbiamo finora evitato accostamenti e sarebbe forse comodo continuare a tralasciare lo spinoso confronto con La Compagnia dell’Anello, anch’esso primo capitolo di una trilogia. Dunque osiamolo questo paragone, perché sono pochi i campi in cui questa nuova fatica cinematografica esce perdente dal match.

L'epicità del Signore degli Anelli rischiava di adombrare gli scontri di questo nuovo capitolo; lungi dal patire il peso dell’illustre predecessore, Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato mozza il fiato più di una volta durante le scene di combattimento, siano esse popolate di orde brulicanti di goblin o di solitari, devastanti giganti di pietra. L’orchestrazione della violenza è spettacolare e superiore a quella della trilogia precedente, complice l’evoluzione tecnologica di cui questo film è straordinario portabandiera. Se dal Signore degli Anelli Jackson ha tratto il miglior epos cinematografico d’inizio millennio, con “Lo Hobbit” fa anche di più, riuscendo a mescolare la componente leggera e fiabesca del romanzo a un più ampio respiro eroico che diventa fil rouge delle future vicende che coinvolgeranno Frodo ed i suoi compagni di viaggio.

Ma non è sul campo di battaglia intriso di sangue che emerge maggiormente la parità, se non superiorità, dello Hobbit: Un Viaggio Inaspettato rispetto a La Compagnia dell’Anello. È piuttosto nell’odissea personale del protagonista che risiede la più luminosa vittoria di Jackson, che giustifica la sua necessità di raccontare la parabola di questo piccolo hobbit. Ogni esitazione, ogni dubbio che passa sul volto di Bilbo/Freeman è specchio delle paure, delle angosce quotidiane, dei bivi di fronte a cui ci troviamo noi, certo ben lontani dalle problematiche della Terra di Mezzo. Lo stupore di Bilbo di fronte alla maestosità delle architetture elfiche di Gran Burrone è lo stesso che prova lo spettatore, il filtro dei suoi occhi veicola le nostre sensazioni. Anche noi, come lui, ci sentiamo meravigliati turisti di fronte ad uno spettacolo immaginifico – sensazione di certo aiutata dal già elogiato 48fps e da un 3D veramente immersivo. E se la storia di Frodo era una storia di fatalità e destino, la storia di Bilbo è trattata in senso antitetico: è l’uomo comune, che si trova davanti l’occasione di un cambiamento. È fuori posto, spaesato, frainteso e circondato da estranei. Ha paura, e la sua paura è aggravata dal peso di aver compiuto una scelta. Non ha ricevuto un anello maledetto in eredità, no: ha deciso liberamente di intraprendere una strada diversa da quella che il destino sembrava aver programmato per lui. Ha rischiato. È questo che rende la sua avventura tanto più vicina al microcosmo interiore che tutti portiamo dentro, rispetto a quella che sarà l’epica vicenda di suo nipote Frodo.

Quella dello hobbit è una svolta voluta, un’evoluzione non predestinata. Ed è questa, prima ancora della strabordante perfezione visiva data dall’immersivo 3D e dalla nitidezza dell’HFR, la linfa del film di Jackson, ammantando questa storia fantastica di un realismo del tutto inedito.

Tuttavia, così come ci ostiniamo a voler considerare Il Signore degli Anelli un’opera unica ed indivisibile, allo stesso modo toccherà aspettare l’estate del 2014, quando verrà distribuito il terzo e ultimo capitolo della trilogia, per giudicare compiutamente Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato. Per il momento, come prima tappa, ha raggiunto un picco abbastanza alto da farci intravedere, all’orizzonte, il distinto profilo di un capolavoro.

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