Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, la recensione [4]
Con Lo Hobbit: un Viaggio Inaspettato, l'affresco mitologico di Peter Jackson si tinge di nuovi colori... in particolare grazie alla tecnologia HFR 3D.
Ma l’Anello del Potere ha una volontà sua.
Vista in questo senso, la narrazione dell’avventura che porterà (alla fine dei tre film) i protagonisti ad esplorare i più profondi anfratti della Montagna Solitaria, da piena soddisfazione al progetto originale del Professore, Jackson non vuole essere uno storyteller, vuole costruire una mitologia.
Lo Hobbit ha la capacità straordinaria di dare costantemente l’idea che, attorno a Bilbo e Thorin, si muovano forze ben più grandi, a far capire che la riconquista di Erebor altro non è che un tassello di un puzzle gigantesco.
La grandezza di Peter Jackson non sta nella sua inventiva registica, ma nella sua capacità di unire alla visione d’insieme una cura per il dettaglio che non ha eguali nel cinema moderno. Il ragazzo di Wellington sa benissimo dove vuole andare e pretende dallo spettatore un’attenzione costante, così come un impegno religioso per non perdersi fra rimandi e citazioni. Inutile girarci intorno.
Lo Hobbit è un film per i fan, fatto da un fan.
Solo chi ha letto e amato alla follia i libri di Tolkien coglierà a fondo l’importanza di alcuni passaggi e l’immensità del progetto messo in piedi da Peter Jackson, dal punto di vista strettamente cinematografico, Lo Hobbit, però è costretto a cedere qualcosa. Alcuni indugi didascalici, almeno nella versione destinata alle sale, si sarebbero potuti evitare, così come alcuni ricicli citazionistici che, a tratti, sembrano tradire una certa stanchezza visiva ed immaginifica. Nel complesso, però, Lo Hobbit è un nuovo inizio che getta fondamenta solide per i prossimi due film. Dopotutto, le radici profonde non gelano.
Giusto un poscritto sull’HFR 48 fps. Chi scrive non ama molto soffermarsi sulle questioni “tecniche”, dato che, magari sbagliando, ritengo che l’analisi di un’opera vada intesa come un’unicum, il cui valore è sempre maggiore della mera somma delle sue parti. Tuttavia la decisione con cui Peter Jackson ha difeso la sua scelta di girare in questo nuovo, e per molti versi ancora sperimentale formato, merita un commento. I primi cinque minuti di visione hanno un effetto strano, a tratti irreale, a tratti quasi da moviola calcistica. Dopo il necessario adattamento, però, si capisce perché il regista neozelandese ami così tanto queste nuove macchine da presa prodotte da RED e la tecnologia ad alta velocità. I 48 frame regalano all’immagine una nitidezza e una profondità di campo impossibili da descrivere, mentre ogni singolo movimento viene restituito in tutta la sua complessità. Certo, questa purezza cristallina si traduce nella perdita definitiva del “senso cinematografico” dato dalla granatura delle pellicola, tuttavia l’essere affezionati a un difetto non lo trasforma in un pregio.