Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, la recensione [4]

Con Lo Hobbit: un Viaggio Inaspettato, l'affresco mitologico di Peter Jackson si tinge di nuovi colori... in particolare grazie alla tecnologia HFR 3D.

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Il ritorno a casa non è mai semplice. A volte serve più coraggio per tornare sui propri passi che per uscire dal portone. Lo sanno bene Bilbo e Frodo Baggins che - dopo le rispettive avventure - non sono mai riusciti ad abituarsi del tutto alla calma della Contea, nonostante ne abbiano sentito una malinconica nostalgia. Ma lo sa ancor meglio Peter Jackson che, dopo il trionfo della trilogia del Signore degli Anelli, ha cercato in tutti i modi di fuggire dalla Terra di Mezzo, prima portando sullo schermo uno dei suoi più grandi sogni d’infanzia, King Kong, poi dedicandosi a un film nel complesso “piccolo” come Amabili Resti. Il regista neozelandese aveva deciso, non voleva fare la fine di George Lucas, intrappolato eternamente nella Galassia Lontana Lontana, no, lui si sarebbe dedicato ad altri progetti, a storia diverse.

Ma l’Anello del Potere ha una volontà sua.

Nell’immaginare Lo Hobbit, e nonostante le enormi difficoltà produttive, Jackson ha scelto di intraprendere una strada ancora più estrema rispetto a quella, già impegnativa, percorsa con i tre film precedenti. Da fini conoscitori dell’opera tolkeniana, il regista e sua moglie (che, come sempre, firma la sceneggiatura del film), sapevano benissimo che Lo Hobbit inteso come libro singolo non offriva l’epos necessario alla narrazione cinematografica, dunque, dando vita ad un’operazione produttiva senza precedenti (e che entrerà nella storia del cinema), hanno deciso di trasformare questa seconda trilogia in qualcosa di più ampio, che trascende i limiti (letterari e narrativi) del libro originale. Lo Hobbit non racconta la vicenda di Bilbo Baggins e dei tredici nani, o meglio, la racconta, ma la usa come pretesto per tracciare un disegno più grande, per portare al cinema il lavoro di un vita, l’intera mitologia tolkeniana così come emerge dall’opera omnia dell’autore inglese.

Vista in questo senso, la narrazione dell’avventura che porterà (alla fine dei tre film) i protagonisti ad esplorare i più profondi anfratti della Montagna Solitaria, da piena soddisfazione al progetto originale del Professore, Jackson non vuole essere uno storyteller, vuole costruire una mitologia.
Lo Hobbit ha la capacità straordinaria di dare costantemente l’idea che, attorno a Bilbo e Thorin, si muovano forze ben più grandi, a far capire che la riconquista di Erebor altro non è che un tassello di un puzzle gigantesco.

La grandezza di Peter Jackson non sta nella sua inventiva registica, ma nella sua capacità di unire alla visione d’insieme una cura per il dettaglio che non ha eguali nel cinema moderno. Il ragazzo di Wellington sa benissimo dove vuole andare e pretende dallo spettatore un’attenzione costante, così come un impegno religioso per non perdersi fra rimandi e citazioni. Inutile girarci intorno.

Lo Hobbit è un film per i fan, fatto da un fan.

Solo chi ha letto e amato alla follia i libri di Tolkien coglierà a fondo l’importanza di alcuni passaggi e l’immensità del progetto messo in piedi da Peter Jackson, dal punto di vista strettamente cinematografico, Lo Hobbit, però è costretto a cedere qualcosa. Alcuni indugi didascalici, almeno nella versione destinata alle sale, si sarebbero potuti evitare, così come alcuni ricicli citazionistici che, a tratti, sembrano tradire una certa stanchezza visiva ed immaginifica. Nel complesso, però, Lo Hobbit è un nuovo inizio che getta fondamenta solide per i prossimi due film. Dopotutto, le radici profonde non gelano.

Giusto un poscritto sull’HFR 48 fps. Chi scrive non ama molto soffermarsi sulle questioni “tecniche”, dato che, magari sbagliando, ritengo che l’analisi di un’opera vada intesa come un’unicum, il cui valore è sempre maggiore della mera somma delle sue parti. Tuttavia la decisione con cui Peter Jackson ha difeso la sua scelta di girare in questo nuovo, e per molti versi ancora sperimentale formato, merita un commento. I primi cinque minuti di visione hanno un effetto strano, a tratti irreale, a tratti quasi da moviola calcistica. Dopo il necessario adattamento, però, si capisce perché il regista neozelandese ami così tanto queste nuove macchine da presa prodotte da RED e la tecnologia ad alta velocità. I 48 frame regalano all’immagine una nitidezza e una profondità di campo impossibili da descrivere, mentre ogni singolo movimento viene restituito in tutta la sua complessità. Certo, questa purezza cristallina si traduce nella perdita definitiva del “senso cinematografico” dato dalla granatura delle pellicola, tuttavia l’essere affezionati a un difetto non lo trasforma in un pregio.

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