La fine del mondo, la recensione - Articolo del 26 settembre 2013 - 42812
Si chiude alla grande la trilogia del cornetto, con un film che ribadisce i presupposti del primo capitolo e li porta a conseguenze ancora maggiori e con ancor più decisione...
La commedia americana dell'ultimo decennio ha esplorato l'amicizia tra uomini in maniera inedita, ma è stato l'europeo Edgar Wright a farlo nella maniera migliore, con una potenza sentimentale che Hollywood ha lasciato intravedere giusto nel finale di Superbad.
La storia di La fine del mondo è ben spiegata dal trailer e comunque è meglio ignorarla prima di cominciare a vedere il film, perchè una delle cose più importanti per la trama scritta da Wright e Pegg è palesemente il reiterato effetto sorpresa dato dal continuo peggiorare della situazione e dal trasformarsi della trama in generi sempre diversi. L'unico filo conduttore vero infatti è il progressivo peggiorare della situazione dei protagonisti in armonia con il loro stato alcolico e l'idea di dover affrontare situazioni sempre più incredibili con sempre più alcol in corpo è già di per sè di un dinamismo straordinario. Quel che accade dopo spingerà i presupposti iniziali ancora più in avanti fino all'iperbole massima.
Come in L'alba dei morti dementi anche qui Wright e Pegg prelevano dalla storia del cinema dei villain archetipici (lì erano gli zombie) per sostenere che non siamo poi così diversi, cerchiamo di non farci contaminare ma forse a modo nostro già siamo diventati come loro, che è la stessa cosa che dice il cinema quando li mette in scena: "Questi mostri possono essere il nostro futuro". E in questo senso La fine del mondo riesce a chiarire ancora meglio degli altri film come per Wright sia la società nel senso di "inquadramento", l'elemento che distrugge la vitalità umana. E' quella che ha trasformato Shaun in uno zombie (come si vede dalla prima scena) e quella che in questo film ha reso i ragazzi (tutti tranne uno) degli adulti equilibrati e privi di vita. Una sete di vita per conquistare la quale il regista è pronto anche ad arrivare alle più estreme delle conseguenze possibili, tutto per lui sembra meglio che vivere come un bancario o un venditore di case con l'auricolare bluetooth sempre acceso.
La conquista di un lavoro e di una stabilità familiare sono insomma di nuovo il blocco che frena sentimenti autentici come l'amicizia ed è divertente come, in quest'ode allo stato di ebrezza, sia l'alcol a liberare i protagonisti (di cui Nick Frost è il simbolo più evidente) e in assoluto a far vincere i buoni (se di vittoria si può parlare) in un clamoroso confronto finale tra il massimo del razionale e il massimo dell'ubriaco.
Nessuno ad oggi scrive queste cose, nessuno le mette in scena in questa maniera. Nessuno in sostanza cerca di volare così alto e affonda le mani nell'introspezione tipica della tradizione europea, riuscendo contemporaneamente a girare un film dalla patina commerciale delle migliori produzioni americane. Solo Edgar Wright.