Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug, la recensione [3]

Lo Hobbit continua verso un corpus unico con Il signore degli anelli e con Smaug mette a segno una delle apparizioni più determinanti, esplicative e metaforiche di tutta la saga..

Critico e giornalista cinematografico


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C'è una cosa che avevamo capito già nel primo film di Lo Hobbit, che la principale modifica introdotta da Peter Jackson era nel tono. Ci sono tante aggiunte e tanti cambiamenti in entrambi i film ma è evidente che il passaggio più determinante è quello dal ritmo leggero a quello grave già proprio di Il signore degli anelli. Jackson ha avvicinato la storia di Lo Hobbit a quella della trilogia già vista al cinema per stile e tono, le ha rese coerenti e in una parola, un corpus unico, sarà una sola esalogia, sei film che possono essere visti tutti insieme senza sapere che tra di loro passano 10 anni.

Accettato questo, cioè che il rapporto tra le due storie al cinema è molto diverso e più saldo di quello che c'è in letteratura, Lo Hobbit sta continuando sul percorso migliore. Certo non sfugge a nessuno la pretestuosità di una linea romantica tra razze diverse e nemiche che non solo è fuori luogo ma anche condotta con toni molto lontani dall'idea di romanticismo di Tolkien, tuttavia se è un prezzo da pagare per avere questo tipo di film sembra accettabile.

Per ogni Tauriel c'è un Thorin, per ogni romanticheria cretina una scena dei ragni, per ogni aggiunta che scricchiola un passaggio importante preso da appendici o da altri racconti di Tolkien (operazione quest'ultima realmente filologica e seria nel senso stretto del termine: attingere a testi diversi per ricostruire una storia com'era realmente).

Soprattutto c'è Smaug. Il drago è un personaggio la cui importanza trascende questo secondo film di Lo Hobbit. Lo si capisce solo vedendo come Peter Jackson ha inteso il confronto nella montagna, la sua entrata in scena e come gestisce la sua presenza.

Materializzare al cinema e in questa maniera non solo la creatura mitica per antonomasia (sebbene il miglior drago di sempre non è certo il primo) ma anche tutto ciò che si porta dietro è l'impresa vera. Il drago è l'archetipo narrativo della paura e del terrore, la bestia mitologica invincibile e il mostro più grosso che ci sia nel ventre delle tue paure (non solo spaventa ma brucia dalla bocca, cioè incorpora nella sua stessa natura il terrore più ancestrale di tutti, quello del fuoco). Tolkien l'aveva immaginato furbo e immerso nell'oro, spettro della cupidigia e concretizzazione di ciò che sta nei cuori dei personaggi (Bilbo e l'anello, Thorin e i tesori....) Jackson riesce a trovare un'identità visiva tra bestia e ori, occhio e metallo luccicante, spazi angusti (ma immensi) e riflessi dorati, aggiungendo anche dell'oro liquido a maggiorare tutto e ricoprire l'animale (che trovata!).

Eguagliare Tolkien non è in discussione, è impensabile e per questo molte aggiunte sono risibili, tuttavia ancora una volta prendiamo atto che se c'è qualcuno capace di dialogare a distanza al livello di quel materiale di partenza è solo Peter Jackson. E questa conversazione è fantastica!

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