La città ideale, la recensione
Il primo film da sceneggiaore e regista di Luigi Lo Cascio dimostra una forza, una vitalità e un senso del cinema del tutto inaspettati...
Le caratteristiche buone per fallire questo primo film da sceneggiatore e regista (oltre che attore protagonista) le aveva tutte e invece Luigi Lo Cascio, a dispetto di ogni banalità, è riuscito ad aggirare i semplicismi da cinemino italiano e trovare una complessità sconosciuta ai suoi simili.
L'odissea del personaggio non è delle più facili in cui immedesimarsi, come accade quando il protagonista insiste con una pervicacia stupefacente nelle azioni meno furbe, causando di continuo il proprio male per eccesso d'onestà o semplice superficialità. Eppure con l'incedere del racconto si ha sempre più l'impressione (confermata da un finale, una volta tanto adeguatamente sorprendente) che dietro emerga altro e che quest'altro, questo sommerso che lievemente le disavventure legali e l'eccesso d'onesta riportano a galla, sia la parte realmente interessante. Non un banale passato nascosto ma l'impressione che non si fugga mai davvero dalle paure e dai retaggi.
Ma sono su tutti gli argomenti a stupire per l'uso non banale. La provincia come dolce rifugio capace di nascondere un'umanità orrenda, le donne viste o come madri o come oggetto del desiderio, il genere come filtro cinematografico solo accennato e mai perseguito veramente, un protagonista dal carattere pacifico ed idealmente perfetto, la lotta contro i vizi nazionali, il rapporto tra meridione e settentrione (radici e vita nuova) dentro la mente dell'emigrante, i sogni come strumento di rivelazione di un inconscio represso, in superficie tutto di La città ideale fa pensare al peggio, tutto è un segno del cinema più sciatto.
E' però (a totale sorpresa) nella messa in scena che Lo Cascio dimostra come tali elementi, per quanto abusati e svuotati di gran parte del loro senso, possano trovarne di nuovo il modo di parlare di umanità e coinvolgere in maniera inedita. La grande conquista di La città ideale è quindi di essere riuscito a ridare senso e feralità ad arnesi filmici, quelli abusati dal cinema italiano degli ultimi 20 anni, che si credevano definitivamente spuntati.