Hunger Games, la recensione
Abbiamo visto Hunger Games a Berlino: un primo capitolo convincente sotto ogni punto di vista che conferma la volontà dei produttori di realizzare un franchise destinato a durare...
Ci sono poche regole ad Hollywood da rispettare, e una di queste è “non far mai male a un bambino”. Il pubblico non ama quando dei piccoli innocenti vengono uccisi, è uno di quegli shock che fanno così male che normalmente allontana le famiglie dal cinema, ovvero quel gruppo di pubblico che garantisce dai tre biglietti in su ogni volta che ci si presenta alla cassa e che spesso determinano il successo o meno di un blockbuster. Riuscire a rompere una regola di questo tipo, evitando anche qualsiasi bollino da divieto ai minori (14 come 18), è stata senza dubbio una grande sfida per gli sceneggiatori e il regista di Hunger Games, che del gioco al massacro fra tanti ragazzini, costretti ad uccidersi l’un l’altro finché non rimarrà un unico sopravvissuto, ne ha fatto la struttura portante del proprio racconto.
Sono passati trentasette anni (era il 1975) dai primi Rollerblade e Death Race (di entrambi furono poi realizzati dei remake), eppure il format narrativo della lotta fino alla morte, o quasi, tra prigionieri costretti a “giocare” e liberare l’animalità che è in loro è ancora più che mai attuale. Merito dei reality show che, grazie all’idea del Grande Fratello, non solo ormai fa della vita di chiunque il punto di partenza potenziale di un programma televisivo, ma grazie al concetto di “nomination” di fatto ci porta sempre a pensare che per andare avanti si debba per forza eliminare qualcun altro. Si tratta di concetti ormai stra-abusati sia a livello letterario che cinematografico, ma che se affrontati con polso e intelligenza sono ancora capaci di rapire la mente per regalarle grandi momenti di suspense.
Gary Ross dimostra di essere un maestro anche nella capacità di raccontare l’efferratezza della violenza, senza di fatto mostrarla, ma solo girandoci attorno. La camera a mano inquadra e nasconde allo stesso tempo, ed ecco quindi sangue, ferite e cadute sul campo viste, ma mai ostentate. La tensione è la stessa di un film horror (di fatto lo è anche il canovaccio: in una terra ostile si comincia con un gruppo di persone con la prospettiva di finire con una sola), e la sequenza finale nella foresta dimostra la volontà di far sobbalzare ogni tanto sulla poltrona. I costumi e le scenografie della città richiamano il migliore Tim Burton, grottesche senza essere convenzionali, mentre a livello narrativo l'anticipazione dei temi che lanceranno il sequel sono accennati il giusto, lasciando un'acquolina che non per questo fa sembrare il primo capitolo un lungometraggio incompiuto e senza epilogo.
A livello recitativo, Jennifer Lawrence si conferma una garanzia in termini di personalità (e in un film così incentrato anche sull'azione, il suo fisico statuario vale cento punti in più), e altrettanto fa il “piccolo” Josh Hutcherson (lo abbiamo visto dal vivo alla première del film a Berlino accanto alla Lawrence, a cui dà almeno venti centimetri) che ha tutta una prima parte di storia recitata completamente in sottrazione (splendida la scena del suo sorteggio), riuscendo a sembrare al contempo il più affidabile dei partner e una mina vagante pronta ad esplodere “se” e “chissà quando”. Se a questo insieme di begli ingredienti ci aggiungiamo uno straordianrio Stanley Tucci (capelli blu o no, ogni sua espressione strappa un applauso), ecco che Hunger Games si candida ad essere fin da ora uno dei migliori blockbuster del 2012. Alla faccia delle “regole di Hollywood”.