Hunger Games, la recensione

Abbiamo visto Hunger Games a Berlino: un primo capitolo convincente sotto ogni punto di vista che conferma la volontà dei produttori di realizzare un franchise destinato a durare...

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Ci sono poche regole ad Hollywood da rispettare, e una di queste è “non far mai male a un bambino”. Il pubblico non ama quando dei piccoli innocenti vengono uccisi, è uno di quegli shock che fanno così male che normalmente allontana le famiglie dal cinema, ovvero quel gruppo di pubblico che garantisce dai tre biglietti in su ogni volta che ci si presenta alla cassa e che spesso determinano il successo o meno di un blockbuster. Riuscire a rompere una regola di questo tipo, evitando anche qualsiasi bollino da divieto ai minori (14 come 18), è stata senza dubbio una grande sfida per gli sceneggiatori e il regista di Hunger Games, che del gioco al massacro fra tanti ragazzini, costretti ad uccidersi l’un l’altro finché non rimarrà un unico sopravvissuto, ne ha fatto la struttura portante del proprio racconto.

Così del resto è nel libro originale di Suzanne Collins, primo capitolo di una trilogia già interamente pubblicata (in Italia, in ritardo rispetto agli States, il terzo episodio uscirà il 15 maggio) e che, se tutto va bene, avrà altrettante (se non di più) trasposizioni sul grande schermo. In un mondo post-apocalittico dominato da uno sfarzoso governo centrale, ogni anno le dodici province che ne fanno parte sono costrette a inviare due tributi (un maschio ed una femmina tra i 12 e i 18 anni) per uno show televisivo da cui uscirà un solo vincitore. Dietro questo macabro progetto di intrattenimento, che tanto ricorda il panem et circenses dell’antica Roma, c’è la necessità di offrire una valvola di sfogo e un barlume di (finta) speranza ai cittadini delle varie regioni schivizzate. Tra i partecipanti della 74esima edizione ci sono Katniss e Peeta, entrambi del 12esimo distretto: è dalla loro prospettiva che si seguirà la storia, è con il loro destino che il pubblico di Hunger Games è invitato a immedesimarsi. Da una parte una sedicenne dal cuore d’oro e abilissima con arco e frecce, dall’altra uno schivo ragazzo che fin dall’inizio capisce di essere condannato a morte sicura. Sarà davvero così?

Sono passati trentasette anni (era il 1975) dai primi Rollerblade e Death Race (di entrambi furono poi realizzati dei remake), eppure il format narrativo della lotta fino alla morte, o quasi, tra prigionieri costretti a “giocare” e liberare l’animalità che è in loro è ancora più che mai attuale. Merito dei reality show che, grazie all’idea del Grande Fratello, non solo ormai fa della vita di chiunque il punto di partenza potenziale di un programma televisivo, ma grazie al concetto di “nomination” di fatto ci porta sempre a pensare che per andare avanti si debba per forza eliminare qualcun altro. Si tratta di concetti ormai stra-abusati sia a livello letterario che cinematografico, ma che se affrontati con polso e intelligenza sono ancora capaci di rapire la mente per regalarle grandi momenti di suspense.

Così accade per questa pellicola diretta da Gary Ross, che ne ha curato lo script assieme alla stessa Suzanne Collins e a Billy Ray. Buona parte delle due ore e venti di durata sono dedicate a ciò che precede la grande sfida finale: la scelta dei tributi, la preparazione fisica e, soprattutto psicologica (uccidere ed essere uccisi), l’assurdità di un mondo tanto colorato quanto tragico come è quello rappresentato dalla capitale in contrapposizione con le condizioni di vita da feudo medievale dei vari distretti. Il primo merito del gruppo di sceneggiatori è quello della sintesi. Con pochi e ben distillati flashback veniamo a conoscenza del passato dei nostri protagonisti, di ciò che li ha legati un tempo, come pensano e cosa sarebbero pronti a fare. In un film in cui la logica dei processi mentali dei vari personaggi sono fondamentali per credere o meno alle loro azioni, riuscire a definire bene caratteri e valori era un punto di partenza da cui non si poteva prescindere.

Gary Ross dimostra di essere un maestro anche nella capacità di raccontare l’efferratezza della violenza, senza di fatto mostrarla, ma solo girandoci attorno. La camera a mano inquadra e nasconde allo stesso tempo, ed ecco quindi sangue, ferite e cadute sul campo viste, ma mai ostentate. La tensione è la stessa di un film horror (di fatto lo è anche il canovaccio: in una terra ostile si comincia con un gruppo di persone con la prospettiva di finire con una sola), e la sequenza finale nella foresta dimostra la volontà di far sobbalzare ogni tanto sulla poltrona. I costumi e le scenografie della città richiamano il migliore Tim Burton, grottesche senza essere convenzionali, mentre a livello narrativo l'anticipazione dei temi che lanceranno il sequel sono accennati il giusto, lasciando un'acquolina che non per questo fa sembrare il primo capitolo un lungometraggio incompiuto e senza epilogo.

A livello recitativo, Jennifer Lawrence si conferma una garanzia in termini di personalità (e in un film così incentrato anche sull'azione, il suo fisico statuario vale cento punti in più), e altrettanto fa il “piccolo” Josh Hutcherson (lo abbiamo visto dal vivo alla première del film a Berlino accanto alla Lawrence, a cui dà almeno venti centimetri) che ha tutta una prima parte di storia recitata completamente in sottrazione (splendida la scena del suo sorteggio), riuscendo a sembrare al contempo il più affidabile dei partner e una mina vagante pronta ad esplodere “se” e “chissà quando”. Se a questo insieme di begli ingredienti ci aggiungiamo uno straordianrio Stanley Tucci (capelli blu o no, ogni sua espressione strappa un applauso), ecco che Hunger Games si candida ad essere fin da ora uno dei migliori blockbuster del 2012. Alla faccia delle “regole di Hollywood”.

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