[Courmayeur 2012] Hitchcock, la recensione

L'atteso biopic sul regista di Psycho si rivela un film sulle difficoltà matrimoniali e su quanto del genio fosse dato dalla collaborazione con la moglie

Critico e giornalista cinematografico


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Si fa prima a dire che quel che Hitchcock non è.

Non è un film biografico che racconta tutta la vita del grande regista, non è un film che si concentra strettamente sul making di Psycho (per quanto ambientato in quel periodo) nè è un film che indaghi il modo di lavorare del suo protagonista (ma ammettiamolo, quale biopic si occupa del motivo per il quale quella grande figura ritratta è considerata così grande?). Hitchcock non è un film per appassionati del maestro, ma uno su Alma Reville, moglie del filmmaker, storica collaboratrice e prima ancora produttrice, spesso in ombra e non accreditata, ma sempre determinante nell'esito finale dei film.

Hitchcock è un film sulla convivenza nel lungo termine con una personalità geniale e ingombrante, presa in un momento fondamentale, quando al massimo del successo rischiò tutto mettendo i propri soldi su un progetto indipendente che nessuno voleva finanziare (Psycho), rischiando la stabilità del proprio matrimonio e non potendo più nascondere l'attrazione per le altre donne.

Insomma Hitchcock è un film sul matrimonio che si svolge durante il making di Psycho. Dunque troverete ben poco sul film in sè, ben poco sui trucchi del maestro e parecchio sulla sua ironia, il suo stile di vita e la sua personalità. L'uomo e non il professionista, come si conviene. Ancora di più, l'uomo visto come la sua produzione impone. L'Hitchcock del film di Gervasi è un concentrato dei propri film, un voyeur di prima categoria, che replica nella vita vera quel che i suoi personaggi fanno nei film, che è dotato delle loro stesse ossessioni (i segni delle linee come Io ti salverò, le donne da plasmare come La donna che visse due volte, il buco nel muro come Psycho e via dicendo).

Alla fine nonostante il lungometraggio sia indubbiamente carino e affascinante questo primo lavoro di finzione di Sacha Gervasi trova i suoi momenti migliori solo quando vuole raccontare la determinazione di una personalità creativa nel perseguire le proprie idee, i propri istinti e le proprie convinzioni per dimostrare a sé stesso e a tutti gli altri di non essere morto. E' invece più debole e zoppicante quando vuole mettere in scena le difficoltà di un matrimonio, la convivenza di due menti creative e il rapporto tra un uomo e la sua controparte nell'ombra.
Particolarmente fastidiosi sono i monologhi che il regista intrattiene con i parti della propria immaginazione (in particolare Ed Gein, il vero omicida cui Norman Bates si ispira) e le consuete scene madri in cui Helen Mirren e Anthony Hopkins smettono i panni dei propri personaggi per indossare quelli dei "grandi attori". Come sempre è più efficace una smorfia di dolore inquadrata per pochi secondi che cento urla con le lacrime agli occhi.

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