Harry Potter: la recensione dell'intera saga

Con la seconda parte di Harry Potter e i Doni della Morte si chiude una saga cinematografica che negli ultimi anni é cresciuta e maturata insieme al suo pubblico.

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E’ passato più di un decennio da quando arrivò la notizia dell’imminente trasposizione su grande schermo del ciclo letterario del giovane mago Harry Potter. Qui in Italia molti ne sentirono parlare così per la prima volta, con le espressioni un po’ fastidiose e un po’ scettiche che la nostra stampa talora riserva ai neonati fenomeni mediatici d’importazione.

Il primo film, però, ci mise poco a fare breccia nell’immaginario collettivo e a rendere iconici i suoi personaggi. E già allora, come sempre succede all’alba di percorsi cinematografici che si preannunciano infiniti, erano in moltissimi a chiedersi quanto a lungo sarebbe potuta durare. Al destino cartaceo di Harry Potter ci avrebbe pensato la Rowling, questo era chiaro. Molto più arduo era individuare il regista, il produttore, l’entità che si sarebbe occupata di far percorrere alla sua controparte di celluloide il lunghissimo viaggio che lo separava dalla resa dei conti finale. Emma Watson a un certo punto se ne sarebbe andata per non essere considerata a vita Hermione Granger, gli incassi prima o poi sarebbero crollati: questo temevamo tutti, ci avremmo quasi scommesso.

E invece Harry Potter ce l’ha fatta, ha raggiunto il ragguardevole obiettivo di diventare un fantasy epico in otto parti, tutte di enorme successo.

Avrebbe potuto fallire, eccome, sarebbe bastato sbagliare qualche ingrediente della formula che in molti non sono riusciti a replicare. Harry Potter è avanzato spedito e senza troppo fatica, barcamenandosi tra gli altri progetti simili che arrancavano sotto i colpi della scure impietosa del box office. Nel 2001 La pietra filosofale aveva fatto da apripista - insieme al primo Signore degli anelli - alla grande rinascita del fantasy, poi andato alla deriva con una miriade di prodotti dalla fortuna alterna: Le cronache di Narnia è da poco arrivato con stanchezza al terzo episodio, Percy Jackson osserva da lontano i fasti della saga potteriana e La bussola d’oro, nonostante l’alta qualità del romanzo di partenza, è stato un grande passo falso.
Ma non è questo il momento di dilungarsi nell’analisi dei meriti di un tale riscontro di pubblico, è un discorso che non può prescindere da tanti fattori anche estranei al discorso cinematografico, non ultimo il valore letterario del materiale di partenza.

E’ invece interessante, adesso che l’opera è giunta al termine, volgere indietro lo sguardo e poter finalmente avere chiare le direzioni in cui si è evoluta la saga in termini di atmosfere, stile e tipo di approccio ai romanzi di riferimento.

La prima osservazione necessaria è che per almeno quattro film è avvenuto un percorso di ricerca volto a determinare uno stile visivo e un linguaggio narrativo che potessero parlare ad una cerchia di persone più vasta possibile.

Si è partiti con il registro scanzonato del primo e del secondo film, entrambi diretti da quel Chris Columbus che negli anni ’90 aveva conquistato bambini e adulti con film come Mamma ho perso l’aereo e Mrs. Doubtfire. Gli estimatori dei romanzi storsero il naso, al tempo, per la banalizzazione che subì la storia nel processo di trasposizione. E fare un confronto, oggi, tra La pietra filosofale e I doni della morte è probabilmente impietoso per il primo, vista, tra le tante cose, la bidimensionalità che contraddistingueva personaggi e situazioni. Ma sarebbe anche sciocco non considerare necessità e obiettivi di un capitolo d’apertura finalizzato a giustificare le centinaia di milioni di dollari che si sarebbero dovuti spendere in seguito.

Tra i meriti da attribuire a Steve Kloves, la penna dietro a tutti i film della saga tranne uno (il quinto), c’è sicuramente quello di aver saputo raggiungere un compromesso tra fedeltà al testo scritto e affrancamento dal modello letterario che mal si applica a un linguaggio così diverso come quello cinematografico. Kloves è stato abile nel cogliere l’evoluzione di toni e stile maturata nella saga letteraria e nell’aver saputo distribuire uniformemente nello script la crescente serietà e l’intrecciarsi sempre più stratificato di trame, psicologie e tematiche.

Partendo da film orientati principalmente ai bambini, i primi due Harry Potter catturarono quella fascia di pubblico che ha costituito cassa di risonanza per il più grande fenomeno mediatico di sempre. I produttori, un po' perché la storia lo permetteva, un po' perché hanno saputo giocare bene le loro carte, hanno dato vita a un precedente nella storia del cinema mainstream e per un decennio i protagonisti dei loro film sono cresciuti non solo allo stesso ritmo degli attori che li impersonavano, ma anche a quello del suo pubblico.
Gran parte dei bambini (anagraficamente e non) che nel 2001 decretarono il successo della saga, sono oggi gli adulti che sanno apprezzare anche le sfumature più profonde e drammatiche delle vicende di Hermione e compagni.

E’ già dal terzo episodio infatti, che i film abbandonano i toni più leggeri. Il Prigioniero di Azakaban apre con un siparietto comico, ma si avverte subito il sottile senso di disagio e inquietudine che impregna i cieli ora plumbei. E la successiva apparizione del dissennatore sull’Hogwarts Express è il segnale definitivo che qualcosa è cambiato. Il regista che stavolta prende le redini è Alfonso Cuaron, una scelta particolare vista la sua filmografia pregressa, tutt’altro che commerciale. Da molti criticato come l’episodio più sgangherato, questo terzo capitolo ha tuttavia il pregio di aver dato spessore e realismo ai suoi personaggi, dipingendo con estro quasi autoriale il sopraggiungere dell’adolescenza. La narrazione fatica a tenere insieme i pezzi durante il finale e forse per questo motivo, unitamente alla virata dark, il film allontana una parte di pubblico, tanto che, degli otto episodi, è quello ad aver guadagnato di meno.

Com’era prevedibile il regista viene sostituito nuovamente e per Il Calice di fuoco la produzione decide di tentare una nuova strada: le atmosfere restano cupe, ma la trama centrale passa in secondo piano in favore del Torneo Tremaghi che del romanzo costituiva soltanto la cornice. Il risultato è un ritmato film d’azione che fa frequenti incursioni nella commedia adolescenziale, ballo scoltastico incluso. Mike Newell confeziona un film sicuramente divertente, ma che si prende poca cura dei suoi personaggi, spesso poco più che macchiette. Il film chiude tuttavia con una nota positiva: il tragico, bellissimo doppio finale della rinascita di Voldemort e della morte di Cedric Diggory che traccia con decisione la strada da percorrere da ora in avanti. Dopo quattro film inizia a delinearsi con chiarezza la cifra stilistica che contraddistinguerà tutta la seconda metà della saga potteriana.

Per un’ultima volta il regista viene rimpiazzato e David Yates riceve il difficile compito di portare a termine l’opera. L’approccio è asciutto, i momenti comici quasi assenti, le atmosfere spesso asfissianti. I romanzi diventano una traccia da ricalcare quasi alla lettera e il ritmo ne risente in più punti. Il quinto capitolo è solamente un’onesta esecuzione che non raggiunge particolari vette emotive, fatta eccezione per il duello finale splendidamente coreografato. Il sesto stiracchia su 153 minuti una narrazione statica e frammentaria molto attenta a riproporre l’estetica del mondo immaginato dalla Rowling, salvo poi tralasciare sottotrame fondamentali allo svolgimento delle vicende. Non c’è nessun lavoro sul climax e il finale sopraggiunge più come una liberazione che come un’adeguatata chiusura delle vicende, sprecando così uno dei momenti più forti dell’intero percorso di Harry.

Yates, svantaggiato dalle due sceneggiature più traballanti fin qui scritte, non sembra capace di imprimere una propria visione. Sebbene la messinscena sia di altissima qualità, specie dal punto di vista di scenografie ed effetti visivi, manca un’adeguata prospettiva che dia coesione ai vari passaggi della trama.

La rischiosa decisione di raccontare la storia dell’ultimo capitolo in due film solleva diverse perplessità sull’effettiva possibilità di poter spezzare in due un unico arco narrativo. I doni della morte - Parte I regge bene al colpo, ma la durata eccessiva e l’assenza di una chiusura efficace rendono il film pesante e, nella parte centrale, particolarmente monotono. Difetti, tuttavia, che passano in secondo piano rispetto al grande pregio che ha il film di saper riportare l’attenzione sul nucleo emotivo dei tre personaggi principali, vero punto di forza e motore dell’atto finale.

I doni della morte - Parte II si rivela essere il terzo atto, appunto, di un unico grande film. Non si preoccupa di riagganciarsi col precedente, se non per una brevissima scena iniziale, ma ne è la prosecuzione diretta. La partenza è persino lenta, verbosa. Ma è solo l’inesorabile incedere di una trama che questa volta sa precisamente dove andare. Ha le idee talmente chiare da rimanere stupiti sulla precisione con cui gestisce le sue scene e i suoi personaggi, tasselli di un enorme mosaico che finalmente riusciamo a guardare nella sua interezza. L’ultimo capitolo arricchisce retroattivamente l’intera saga, non solo chiarendo i punti oscuri della trama, ma suggerendo sfumature di grande suggestione e carica emotiva.

Giunti alla fine, lo spettacolo che abbiamo davanti agli occhi ha una dimensione epica, intima e grandiosa allo stesso tempo. Ci riesce facile persino perdonare le sbandate avvenute lungo il percorso.

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