[Berlino 2014] The Grand Budapest Hotel, la recensione

Il nuovo film di Wes Anderson è ancora una volta una fuga, con meno aspirazioni, ma con una leggerezza meravigliosa, un senso del cinema immenso e una voglia di sentire e fare racconti bellissima...

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Un racconto in un racconto in un racconto.

Una ragazza, oggi, legge in un libro in cui (vediamo) il suo scrittore parlare nel 1985 (probabile anno di scrittura del tomo), riguardo eventi che lo videro protagonista da giovane (e li vediamo, ambientati nel 1968), quando incontrò un uomo al Grand Budapest Hotel, struttura ormai fatiscente, il quale, in una lunga cena, gli narrò la sua storia, ambientata nel 1932. La parte preponderante del film (l'unica in cui il formato cambia dal classico simil-16:9 rettangolare ad una specie di 4:3 d'altri tempi, quindi quasi quadrato, da film della prima metà del novecento).

Così inizia la nuova opera di Wes Anderson, di certo meno ambiziosa delle altre (sebbene realizzata in grandissimo stile), ma forse anche per questo spensierata e godibile come quel capolavoro di Fantastic Mr. Fox.

Se infatti c'è qualcosa di evidente in questo film è quanto, nonostante sia tutto in live action con solo piccoli inserti realizzati in stop motion (appositamente) posticcia, voglia essere un cartone animato. Uno di quelli anni '60/'70 oppure quelli di Lucky Luke, magari per la televisione. Il solito stile Anderson fatto di costumi e scenografie dalla cura e composizione cromatica inesorabile, la fissazione per le uniformi e per i cartelli, oltre ai movimenti ortogonali della macchina da presa che fanno il paio con quelli secchi ed "esplosivi" dei personaggi, ma tutto è virato verso un'estremizzazione, ovvero il cartoon.
Gli attori compaiono di colpo facendo capolino dagli angoli, le svolte della trama giocano con gli stereotipi più beceri per farsene beffa come se si volesse prendere in giro l'animazione più che seguirla, e anche le scelte d'abbigliamento sembrano in armonia con il gusto che i cartoni hanno per il "classico", dai carcerati con uniformi a righe orizzontali bianche e nere, ai concierge tutti con la stessa divisa solo di colori diversi, fino ai cattivi con capigliature assurde e vestiti di nero intenti in un continuo grugnire (in questo è straordinario il killer molossoide di Willem Dafoe, che pare un cane).

Chi si annoia con la maniera in cui Wes Anderson realizza i suoi film, e lo accusa di non essere originale o ripetere sé stesso, non cambierà idea anche se questo film gli risponde per le rime. Dopo la fuga d'amore di Moonrise Kingdom, la fuga per la vita di Fantastic Mr. Fox arriva una fuga per soldi di un uomo che fa da padre ad un ragazzo che lavora con lui, ma volersi concentrare sull'ossessività del regista americano e individuare in essa una pigrizia o una mancanza di idee vorrebbe dire trascurare la quantità mostruosa di invenzioni che dissemina in tutto il film. Dialoghi, scene, gag e personaggi, tutto è un continuo reinventare qualcosa utilizzando un cast di comprimari, quasi tutti attori di grosso calibro (sembra la festa di compleanno di Wes Anderson, in cui invita tutti ma proprio tutti i suoi amici).

La maniera in cui questo cineasta riesce a raccontare sempre la medesima storia cambiando tutto intorno ad essa è semplicemente straordinaria.

Continua a leggere su BadTaste