[Cannes 66] Zulu, la recensione
Lo sceneggiatore di The Tourist torna a fare un film d'azione (?!?!) che intende mostrare i problemi delle scelte post-apartheid in Sudafrica...
Orlando Bloom si sveglia sfatto e distrutto con accanto una donna seminuda addormentata e mette subito in mostra addominali e sedere, prende la pistola e comincia a menare le mani, dopodichè prende un caffè nel quale inserisce del whiskey e comincia la sua giornata da poliziotto.
E il cinema commerciale è quel che gli serve, nella sua mente, per veicolare una storia seria, quella dell'eredità della dottrina Mandela riguardo la giustizia post-apartheid. In Sudafrica i criminali bianchi sono stati perdonati invece che perseguiti per poter stimolare una nuova società fondata su pace e tolleranza invece che odio e vendetta ma, ad anni di distanza, forse la decisione non è stata delle migliori. Almeno questo si chiede Zulu, attraverso il personaggio di Forest Whitaker, bambino massacrato e mutilato per odio razziale e oggi poliziotto tollerante, uomo di giustizia senza pregiudizi, la personificazione stessa delle idee di Mandela.
Cercando di evitare come può di essere reazionario Salle vorrebbe mettere in scena una riflessione (che effettivamente è in corso a più livelli), mascherata da cinema commerciale, con inseguimenti e molto sangue. Però non ha la decenza di coreografare scene d'azione degne di questo nome e non ha quel rispetto verso il cinema poliziesco che serve a fare un buon film.
Unico momento sensato è l'inseguimento del finale, che pare poter durare per sempre e rappresenta bene con un'immagine potente tutto il senso di una responsabilità infinita che insegue i colpevoli.