[Cannes 66] Venere in Pelliccia, la recensione

Roman Polanski costretto a non poter uscire dalla Svizzera continua a dirigere film tutti costretti in un ambiente...

Critico e giornalista cinematografico


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E' impossibile non leggere gli ultimi due film di Roman Polanski alla luce degli eventi che stanno condizionando la sua vita privata. Dichiarato "uomo libero" dalla giustizia Svizzera, il regista non esce dalla Confederazione per non essere soggetto nuovamente ai tentativi degli Stati Uniti di processarlo. I suoi film, da quando è in tale situazione, si svolgono sempre in ambienti chiusi (una casa Carnage e un teatro in questo caso), modalità narrativa nella quale si è cimentato spessissimo in passato, in cui è a proprio agio e che stavolta ben si accoppia con il suo vivere recluso in uno Stato.

Venere in pelliccia è tratto dall'omonima opera teatrale del 2010 di David Ives, che a sua volta adatta il romanzo (sempre omonimo) di von Sacher-Masoch. La storia di Wanda e delle fantasie masochiste diventa un rapporto a due tra un regista teatrale che vuole mettere in piedi un suo adattamento di quel libro e un'attrice provinata per la parte protagonista. Nonostante un'apparenza fastidiosa e poco professionale l'attrice si dimostra perfetta per il ruolo ma più provano più le parti si confondono e la seconda comincia a questionare il testo scritto dal primo, coinvolgendolo nel medesimo turbine di masochismo e sottomissione del libro.

Sia i confronti da reclusi che la repressione di istinti sessuali sono temi nelle corde di Polanski ma anche più che in Carnage si ha l'impressione che la volontà di adattare un'opera così recente sia più dovuta all'esigenza comunicativa di parlare di reclusione che altro, sebbene non ci sia, come nell'altro film, un sottotesto diretto sull'accanimento giustizialista ma invece un discorso sul piacere della sottomissione.

Ovviamente a esagerare con le seconde letture facilmente ci si allontana dalla realtà dei fatti (non tutto dev'essere per forza una metafora della vita del regista) e soprattutto ci si allontana dal centro del film, opera capace di reggersi sulle sue gambe e di divertire da sola, sebbene diretta con pochissimo entusiasmo.

Unico tocco veramente polanskiano è un piccolo gesto che per due volte rivela un capezzolo con nonchalance.

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