[Cannes 66] Salvo, la recensione

Alla Semaine della critique esordisce una coppia di cineasti italiani con uno dei film più interessanti e sorprendenti degli ultimi 10 anni...

Critico e giornalista cinematografico


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Da quanto tempo l'esordio di un cineasta italiano non iniziava con (in quest'ordine): una pistola nascosta, una sparatoria, un inseguimento e poi un lungo piano sequenza di circa 20 minuti all'interno di una casa in cui un killer e una possibile testimone (non vedente) giocano al gatto col topo tra non detti e tentativi di inganno nel silenzio?

Salvo, di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, fa tutto questo e molto di più perchè contrariamente a quanto si può immaginare ricalca le strutture dell'action poliziesco americano solo con una matita molto molto sottile e poi ripassa i tratti con la china del cinema italiano moderno, quello di ispirazione garroniana in cui luoghi, volti e corpi reali sono ripresi per sembrare altro. E in più proprio al termine di quel lungo pianosequenza (un momento centrale per tutto lo sviluppo della storia) avviene un colpo di scena che fa pensare al miglior cinema in assoluto. Nessuna meraviglia che sia stato preso all'unanimità nella Semaine de la critique.

La storia di una guardia del corpo / killer della mafia siciliana che entra in contatto con una ragazza non vedente e invece che ucciderla, come dovrebbe, la risparmia e la nasconde dichiarando a tutti di averla fatta fuori, non vuole riservare sorprese, procede su binari abbastanza usuali perchè non pare essere l'intreccio o anche l'atto dello scioglierlo l'interesse dei due registi.

Il bello di questo film è come voglia stabilire che esiste una possibilità di cinema in Sicilia e con quelle persone, come fosse un test. Prendere dei luoghi e farci i generi in maniera nuova, prendere la campagna e renderla un luogo polveroso da western, creare una storia in cui le persone si trovano effettivamente in mezzo a questa polvere, fermi come duellanti, pronti a spararsi.

Per arrivare a tutto ciò con i mezzi ridotti di cui solitamente si nutrono gli esordi italiani Piazza e Grassadonia lavorano più che altro sul sonoro fuoricampo. Tutto ciò che non si vede (ed è molto) è ricostruito con una serie di rumori continui e martellanti, un inferno di metallo che sbatte e sirene che suonano, capaci di disegnare nella testa degli spettatori la più angusta delle realtà.

Per questo poi alla fine, è un peccato che Salvo si perda per strada, appresso a mutismi che non sono espressivi e una volontà troppo forte di poesia a tutti i costi, capace di rendere il grande colpo di scena dell'inizio una banale allegoria di una nuova rinascita. Se si fosse mantenuto sul registro iniziale, su quell'asciutta volontà di raccontare esseri umani senza indugiare in retorica sarebbe stato un vero capolavoro.

Ad ogni modo: avercene!

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