[Cannes 2014] Mommy, la recensione

Estremo e disperato il quinto film tutto gridato di Xavier Dolan è un esercizio di maestria filmica che riesce a dire quello che a parole non avrebbe la stessa forza. E' il miglior film del concorso

Critico e giornalista cinematografico


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In Italia praticamente non lo conosciamo (o almeno non lo conosce chi si affida unicamente alla distribuzione e non scava in rete) ma Xavier Dolan è il talento più limpido che il cinema abbia espresso negli ultimi anni.

Ha girato il suo primo lungometraggio a 19 anni (J'ai tué ma mère - Ho ucciso mia madre), un esordio pazzesco dotato di una violenza espressiva e un'originalità che scoppiano una volta ogni 20 anni, e ha proseguito con altri 3 film dai temi simili ma svolgimenti mai ripetitivi. Ora Mommy continua ad affrontare il medesimo argomento degli altri (il rapporto madre-figlio) ma lo fa cambiando radicalmente punto di vista. In passato i figli, spesso omosessuali, erano vittime di madri che non li capiscono, non li amano e gli rendono la vita un inferno, in Mommy l'inferno lo vivono entrambi e dentro di esso si agitano cercando disperatamente di amarsi.

E' "disperazione" l'unica parola possibile per questo film straordinario. Nonostante si rida molto verso l'inizio (poi non più perchè dal distacco si passa alla partecipazione e ciò che faceva ridere prima in seguito preoccupa), è evidente che è la tragedia il registro scelto. Come pesci in una rete Steve e Diane si battono dentro un formato che li intrappola, un'immagine più stretta del 4:3, simile a quella più verticale che orizzontale degli iPhone. In queste inquadrature strette lottano, menano, urlano, insultano e corrono per tutto il film. Outsider da periferia, coatti eccessivi in tutto, dall'abbigliamento agli atteggiamenti, dagli odi agli amori, i due sembrano amanti per la maniera in cui non possono stare nè insieme nè separati.

Steve è malato, ha un'iperattività patologica che sconfina nella violenza se sotto stress e Diane è la persona meno indicata a gestirlo ma l'unica che ami veramente e che lo ami. Il loro amore passionale si misura in decibel, in urla agghiaccianti di dolore straziante.

Solo un alieno come Xavier Dolan poteva avere il coraggio di fare un film simile, di accostare la maternità ad un rapporto d'amore senza sconfinare mai in cretine allusioni sessuali, solo una persona con il suo insaziabile desiderio di libertà creativa poteva giocare con i formati in questo modo (il classico 16:9 arriva ma solo quando serve) e inserire un terzo personaggio opposto ai primi due, un'altra madre remissiva e balbuziente che al loro profluvio verbale oppone una resistenza commovente (potrebbe anche essere lei il polo migliore di questo film, non fosse che per un paio di primi piani muti di Suzanne Clement che non vogliono dire ma lasciano trasparire un oceano intero).

Mommy corre verso un'inevitabile finale cercando di sfuggirgli in ogni momento sebbene condannato ad arrivarci nella più eccessiva delle maniere. Rifiutandosi di dare colpe per la prima volta Dolan supera la contrapposizione binaria del passato, in cui i figli avevano tutte la ragioni, e cerca di capire cosa ci sia tra una madre un figlio di così forte e cosa le persone possano fare per questo legame in condizioni estreme.

Ancora di più è evidente come l'autore francocanadese usi i film come un mezzo per esprimere le proprie istanze, per dire quello che a parole si fa fatica ad esprimere. E quest'atto, in sè, è incredibile: usare tutto un film intero per dire qualcosa che non sarebbe comunicabile con la medesima efficacia a parole ha un fascino impossibile da trascurare. Dolan infatti non ha mai nascosto che l'odio per sua madre ha alimentato i primi film e ora questo reciproco grido d'amore con le lacrime, questo misto di violenza, desiderio smodato di possesso e voglia di un affetto troppo forte per poter esistere sembra una confessione fatta piangendo su un amore che volente o nolente non riesce a non provare.

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