[Cannes 2014] The blue room, la recensione
Il quarto film da regista di Mathieu Amalric è meno potente del primo, più leccato per inseguire il soggetto tratto da un libro di Simenon. Gran peccato...
Adatta Simenon e cambia completamente stile. Nobile da una parte, un peccato dall'altra.
Qui invece siamo dalle parti della focale corta, molti sfocati, oggetti ripresi da vicino, montaggio per dettagli, colori saturi, tramonti che entrano dalle veneziane, sudore patinato su corpi nudi e una storia torbida da ricostruire (non a caso) con stile letterario. Il risultato, purtroppo è molto meno vitale.
Quelle di Amalric passano per i dettagli, come si diceva all'inizio, per la memoria collettiva di coperte sfatte e calori estivi solo parzialmente stemperati da finestre socchiuse all'imbrunire, natiche schiacciate contro il materasso e sussurri (bello come in molti punti i dialoghi siano doppiati con palese artificio, con voci sussurrate che sembrano provenire dal profondo della memoria). Ricorre insomma all'inconscio e più che creare una zona semantica nuova relativa all'argomento (come aveva fatto Truffaut, cambiando radicalmente la maniera in cui si filmano due persone nell'atto di amarsi) sfrutta quel che la maggior parte delle persone associa all'atto.
Il resto del film è accademia e ricostruisce a fatica un romanzo non facile da mettere in scena.