Argo, la recensione [2]

Il terzo film di quello che probabilmente (e contro ogni previsione) è il regista giovane più interessante d'America

Critico e giornalista cinematografico


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Della carriera da regista di Ben Affleck non si poteva che pensare già un gran bene, eppure ora con Argo compie un ulteriore, imprevisto e per certi versi precoce salto in avanti. Senza attendere, godersi i successi o esplorare il noto ma anzi con la foga dell'esploratore voglioso di allargare i propri orizzonti, Affleck va ancora più avanti di Gone Baby Gone e The Town e allo stile minimalista, pacato e magistralmente austero di quei film accoppia una sceneggiatura che richiede un preciso mescolamento dei generi, che richiede di conoscere la commedia, come il cinema di guerra, come il dramma storico e saperli fondere con coerenza e gusto. Ridere, e anche molto, in un film in cui si parla di veri ostaggi presi dall'ambasciata americana in Iran, ridere in un film che rappresenta i veri impiccati nelle piazze di Teheran durante la rivoluzione e poi rappresentare la tensione delle grandi operazioni di fuga e l'impotenza dell'assedio a fianco di quella commedia, senza scontentare nessuno, senza che un registro rovini l'altro.

Argo è un film delicato, equilibrato e magistralmente organizzato, talmente pieno di artifici di retorica filmica da essere tutti invisibili, indistinguibili nel fiume del racconto tenuto saldamente in mano da Ben Affleck. La storia vera che sembra falsa di un agente della CIA che per esfiltrare degli americani dal paese più pericoloso e antiamericano del momento si finge produttore di un assurdo film di fantascienza da girarsi proprio in Iran, rivela la sua struttura filmica solo nelle forzature di suspense degli ultimi minuti (comunque riusciti in pieno).

Ma non basta. Oltre all'impianto commerciale, quello che bada alla godibilità da parte di qualsiasi tipo di pubblico di una storia che abbia risvolti sufficientemente onesti e interessanti, Affleck non dimentica di ritagliarsi dei minuscoli spazi per sè, per le sue idee e per una visione più ampia del singolo fatto storico. Spazi minuscoli che, con i poteri che gli derivano dal doppio ruolo di regista e attore, si allargano nella testa dello spettatore fino a diventare la chiave di lettura del film.

Quale che sia il registro, la situazione o il luogo il suo Tony Mendez abita ogni scena con una tristezza e un'apatia infinite, protagonista quasi incosciente della storia nel suo farsi, disperato uomo solo chiamato ad un'impresa che potrebbe essere suicida e che (suggerisce l'Affleck regista) è resa necessaria da un atteggiamento che l'America non cesserà di tenere dopo la crisi degli ostaggi in Iran.

Minuscoli richiami all'Iraq, una frontiera nel finale e ancora l'atteggiamento delle istituzioni e il modo in cui il regista spaesato quanto i protagonisti guarda i locali, come se non capisse nulla di loro mai, sono la cifra di un film che tiene la schiena dritta come pochi altri se ne sono visti, che ha il coraggio delle proprie ma non l'arroganza di urlarle. Perchè Affleck regista sa quel che Affleck attore applica, che alle volte basta un'espressione minuscola, una piccola variazione al momento giusto per spalancare le porte verso nuovi oceani di senso.

Contro ogni previsione è Ben Affleck il giovane regista più promettente d'America.

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