Alabama Monroe, la recensione

Decisamente per amanti delle grandi tragedie il film di Felix Van Groeningen arrivato alla serata degli Oscar rappresentando il Belgio è un'odissea nei sentimenti più interessante di quel che non si sarebbe detto...

Critico e giornalista cinematografico


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Uscito sconfitto dalla corsa all'Oscar per il miglior film straniero questo film belga/fiammingo in cui due europei innamorati dell'America tradizionale, del bluegrass, di Elvis e della cultura anni '50 tatuaggi e moto vivono una storia tra alti altissimi e bassi bassissimi, rischia di passare inosservato e invece merita di più.

Integralisti come tutti i convertiti ad una nuova cultura, materialisti e atei, ma credenti nella chiesa della musica, vengono messi alla prova da tutti i punti di vista. Fossero stati gli anni '90 poteva essere un film di Lars Von Trier  per la pervicacia con la quale insegue la tragedia e invece ha tutto un altro passo (evidentemente più autentico nella musica), un altro intento e un'altra forma narrativa, decostruita in modo da mescolare passato e futuro della storia con il suo presente, quel che accadrà con quel che è accaduto. Ne escono sviliti i fatti e anche il grande dramma che sembra prendere il proscenio in questa maniera passa in secondo piano, perchè in primo piano nonostante tutto rimane, come spiega il lungo finale, la storia dei due amanti.

Spezzettando la storia in pochi momenti mostrati in parallelo, con un montaggio che alterna scene in cui i protagonisti si conoscono con altre in cui entrano in crisi, fino a tutte le fasi del rapporto, Alabama Monroe procede in un caos emotivo che alla conseguenza logica preferisce quella sentimentale fino almeno allo snodo principale della storia, momento dal quale invece procede linearmente. E' da questi particolari che si capisce come Felix Van Groeningen abbia un'idea precisa di cinema da proporre e al di là di alcuni semplicismi ne emerge la capacità non comune di raccontare.

Il regista infatti è così determinato a girare non tanto una storia d'amore quanto una di sentimenti, così coriaceo nel voler riprendere le sensazioni umane e il grande spettro emotivo che passa da estremo ad estremo, da felicità a dolore, attraverso due outsider completi, fuori dal mondo e dal tempo da rischiare spesso di sfociare nel kitsch, nell'esagerato o nel platealmente teatrale. Ma è anche indubbio come alla fine, quando viene il momento di tirare le fila del racconto Van Groeningen scarti il melodramma più facile (alcuni eventi che coinvolgono l'ospedale sono i più scontati che si possano immaginare) e metta su pellicola una capacità non comune di colpire quando serve, di comprendere i meccanismi del racconto e tradurli in una serie d'immagini madre perfette. In questo senso anche il titolo italiano (sorprendentemente!) si dimostra sensato nelle ultime inquadrature.

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